FUNE DI VINCOLO

SI PRECISA CHE QUANTO ESPOSTO NEGLI ARTICOLI NON RAPPRESENTA, E NON PUÒ RAPPRESENTARE, NÈ LE POSIZIONI DELLA SEZIONE DI ROMA NÈ TANTOMENO QUELLE DELL'ASSOCIAZIONE, MA COSTITUISCONO MERAMENTE OPINIONI RIFERIBILI AL SOLO AUTORE.

A coloro che mi assemblarono…

- “Falco 1”, stai a mo’ di Farinata degli Uberti -, cosi mi apostrofava sorridendo seriamente “Puma”, vedendomi ergere dalla cintola in su da una botola dell’ ”M 113”.

“Puma”, era, ed è, un Comandante eccezionale. Il Comandante.

Il nostro Comandante.

 

Il basco rosso reclinato con limpido cipiglio ed il fregio lucente e ammiccante, riassumevano intensamente entusiasmo, spessore, qualità: monito per i dubbiosi, esempio e dimora per i tenaci.

La “mimetica”, aderente al corpo nervoso e senza agi, gli dava “unnonsocchè” di aggressivo e duro.

Gli occhi, decisi, sereni, ti trafiggevano sino all’anima, setacciavano ogni angolo, denudavano equazioni, sottraevano perplessità. In quello sguardo misuravamo semplicità ed onore: vessilli fuori moda e senza tempo.

Lo ascoltavamo fiduciosi ed ammirati, attenti e timorosi, con il ben occultato desiderio che ci sollevasse, almeno per quella volta, dalla quotidiana esplorazione, ma poi assegnatici definitivamente compiti e ruoli, coperture e alternative ci inerpicavamo agili, leggeri e silenziosi per quei sacri sentieri impervi, in luoghi avari di conoscenza e illusioni, non ancora insultati, esclusi dai saccheggi.

Avanzavamo tra dedali ignoti, abbandonati, indimenticabili. Lontani dal paese dei balocchi che non ci voleva, ci temeva e rifiutava. Ci accoglievano monti e vallate, boschi e pendii, pascoli e colline, lasciati alla mercé delle stagioni, rincuorati dalla pioggia e dalla neve, ovattati dalla nebbia, lambiti dalle nuvole, accarezzati dalla luna, allietati da grilli e da cicale, da pecore e bovini, da volatili e serpenti, da volpi e da cinghiali, da daini e marmotte, ignorati dal progresso e dai computers, sconosciuti dai video, sconsigliati dalle mutue e dalle ferie, dove gli anfratti sapevano ancora di antico e il profumo dell’erba e il vento della giovinezza bisbigliavano promesse clandestine e ci riempivano il cuore di segrete speranze.

A sera, dopo aver rischiato seriamente la pelle con le razioni “K” e lasciati in balia di tenebre seducenti e della nostra brutale fedeltà, ci riunivamo attorno al fuoco amico, saggio testimone delle nostre fatiche, a guardare quasi rapiti quelle immortali fiammelle che si rincorrevano disegnando effimeri e bizzarri volteggi, e allora dalle nostre gole saliva spontaneo e malinconico l’inno: si levava lento e melodioso verso quei mille rivoli di stelle, fedeli guide del nostro orizzonte e del nostro cammino.

Dal ventre obeso della vallata sottostante, assediata e percossa dal benessere e dai consumi, dalla protervia e dalla paura, dal fisco e dall’inflazione, dagli intrighi e dalla approssimazione, giungevano anonime missive, enigmatici idiomi, incomprensibili parole. Squallidi belati diffusi da un’etere artificiosa ed arcana, pigra e insolvente, dissanguata e precaria, supina e latitante, bieca e narcotizzante che elargiva ai branchi ogni movimento, ma esitante ed allarmata dalla nostra presenza evitava persino di sfiorarci.

Un frullare d’ali, un’ombra furtiva in volo radente, un rapace notturno in cerca di preda spaventato e deluso dalla nostra vivacità, s’allontanava inseguito dai nostri accidenti e dai nostri scongiuri, urlati in vasto repertorio che replicato in tutte le matrici latitudinali fendevano il buio, echeggiavano tra i vicoli laggiù, turbando sonni per niente tranquilli.

Poi, per qualche attimo, stranamente, scendeva una quiete assoluta. Il mormorio di un ruscello frugava soffice e leggero gli argini.

Si udivano solo i silenzi della notte parlare di noi.

E tutto, tutto, era stramaledettamente bello, inespugnabile. Sentivi il sangue scorrere caldo nelle vene. Nei palpiti del cuore trafficavano impetuosamente i nostri desideri e la nostra semplicità. La verità. Eri indissolubilmente vivo. T’accorgevi che la lotteria della vita non apparteneva al caso.

Il fuoco continuava a crepitare allegramente imponendo il proprio umore, attizzava la nostra mente che accompagnata dalle risa ci trasportò ai primi giorni della “Scuola”.

 

“…Ci aveva accolti il ghigno di un cinico barbiere, che eseguì magistralmente, con sottile perfidia, il primo taglio tattico della storia dei nostri capelli e, dopo i primo attimi di comprensibile stupore, ci ritrovammo risarciti in fierezza e dignità.

 

… i “cinquemila”, la “torre”, la “fune”, il “muro”, le “parallele”, il “plinto”, il “tondo”, il “CMP 55”, l’”ausiliario” e la doccia che si esauriva con millimetrica precisione lasciandoci in eredità schiuma, sapone e imprecazioni e i “C.I.” che urlando a squarciagola nella camerate ci facevano sobbalzare dalle brande presentandoci alle luci fioche del mattino, e il ricordo di “quel” caffè portato con un sorriso dalla mamma, si infrangeva impietosamente azzuffandosi con asprezza tra pentimento e volontà.

Lo spirito antico, ora blandito, ma a quel tempo ribelle e sconosciuto, assunse spontaneo e vigoroso i suoi precisi connotati. Tra sacrifici e rinunce, sudore e fatica, privazioni e sofferenze, esplose con tutta la sua superba potenza sentenziando prepotentemente vocazioni e identità. Ci trovammo ad essere ciò che semplicemente volevamo: “ginnico, massiccio, bestiale!!!”…

 

…”Alla PORTA!!!...

…”NOME!!!...

“Ermenegildo CASATI VANARA Conte di Casal Bernocchi!!!

Cosi, per esorcizzare se stesso ed il vuoto, qualcuno saltava dalla “torre” proponendosi per stima e simpatia.

 

…Finalmente in decollo…

Primo volo, primo lancio. “Puma” esaminando “DL”.

Il vetusto “C 119”, sbuffando s’arrampicò per il cielo. Raggiunse ansante la “quota”. Dopo qualche minuto, uno di noi fu colto dagli effetti che i vuoti d’aria procurano e le virtù dell’acciaccato “vagone” accentuavano, “Puma” se ne accorse prontamente e avvicinatosi all’ “allievo” prese a massaggiargli le tempie. La sola presenza del Comandante, ci aveva condotti nella dimensione delle certezze, e quella estemporanea adozione non fece che aumentare la nostra ammirazione e la nostra sicurezza.

Dipendeva, ora, da noi, ma non ci sentivamo soli, non ci sentivamo abbandonati. Non lo eravamo. Non lo siamo.

“1° passaggio, ritti!!!”… … … …

“Luce verde”.

“VIA!!!”. “milleuno…”

Il vuoto ci inghiottì. Le turbolenze delle eliche ci schiaffeggiarono. Cielo e terra si capovolsero…

”millecinque”.

La “calotta” dischiuse le ali e tutto il suo dovere…

Silenzio assordante…scorciatoia fra sogno e realtà…

L’umida terra di Tassignano, al pari di noi, fremeva soddisfatta.

Finalmente, anche per noi, Basco Rosso e Brevetto.

Cambiammo aspetto. Migliorammo “dentro”. “Qualcosa” mise le radici nell’animo più profondo. Definitivamente.

 

…Addestramento, esercitazioni, aula, escursioni, palestra: nostalgia di cose, desiderio di reclusione, acrobazie di sentimenti. La licenza: altre verità, ignorate, sofferte. Genitori, casa, le strade della borgata, gli amici. Tutto sconosciuto. Ignaro. La divisa indossata con malcelata fierezza. Un amplesso non comprato, insufficiente per azzerare inquietudine e turbamento, gli sguardi addolorati ed interrogativi dei Tuoi. Gli amici, sconfessati, che fingevano di comprendere. Gli occhi di Monica, appassionati ed orgogliosi, sfiorirono forse in lagrime riponendo per sempre i sogni in un cassetto. Non vedevi l’ora di tornare “LA”, e trovare, magari, un bel “sacco” da sciogliere in piena notte.

Nel buio della camerata si accendeva il tuo sorriso ed un sussurro:

“ ’CCIVOSTRA…”.…”

 

Il fuoco continuava a scoppiettare, mentre noi, dimentichi del nulla, discutevamo del “ C 119”, del “C 130”, del “CH” o ascoltavamo vigili chi aveva provato l’esordiente “G”…

Poi, complice la luna, legittimavamo quello splendido colore dei vent’anni ripensando alle tenzoni con l’irriducibile “Lili Marlene”, alle cui virtù aderirono scrupolosamente, sino a cedere con l’onore delle armi, interi plotoni… e l’infermeria s’affollava.

 

“…Apparteneva oramai al passato il “2 giugno”, quando Roma ci accolse con lanci di rose, palpiti d’orgoglio e pavide promesse, poi fu costretta a tapparsi le orecchie per difendersi dall’impeto del nostro urlo solenne, che scagliato con furore genuino squarciò l’aria, solcò il Colosseo, infiammò di nostalgia i Sette Colli, s’insinuò tra la gente, provocò brividi e pallori, ansimarono animi e coscienze, sussultarono l’Altare della Patria e “Caracalla”, conquistò i “Fori Imperiali” e qualche cuore…”

 

Dalla penombra di quel magico scenario, faceva eco la gagliarda sagoma di “Puma” che si stagliava a presidio dei nostri sentimenti, dei nostri doveri e dei nostri diritti. Parlava con timbro neutrale, pacato, fermo. Poneva accenti col piglio di chi è disinvoltamente paracadutista. Sapeva di essere compreso dagli incompresi, e noi, spiritualmente spalleggiati, confessavamo l’inimmaginabile, sconfessavamo il confessabile, dividevamo acqua, gallette e sogni, e quello spicchio di terra incontaminata si nutriva dei nostri rigogliosi frutti, coltivati con fertili mutismi, generoso ardore, ringhiante chiarezza.

“Puma” sprigionava un alone che esiliava produttori e sudditi di tutte le stupidità, ispirava leggende e realtà che si raccontano in “Brigata”.

 

“Puma”, uno coi “controrazzi”.

 

Sapeva infonderti fiducia e sicurezza, dissipava dubbi e sospetti. Ti disilludeva dalle tentazioni e dai miraggi della vita. T’allertava dalle insidie e dalle menzogne del mondo.

Forgiava i suoi ragazzi azzerando i nostri pericolosi optionals.

Ti fissava negli occhi, ti metteva una mano sulla spalla e inspiegabilmente , ti sentivi importante, fiero, UTILE… ed eri fregato!

 

Non ho mai avuto un brillante concetto di quello che la “Specialità” ci diede per Comandante, lo stesso che inevitabilmente scegliemmo che lo fosse. Se le nostre vie dovessero nuovamente incrociarsi, gli confesserei amaramente che le sue “paraboliche omertà” non sono riuscite a protocollarmi alla stregua di quel esemplare cittadino che mira esclusivamente a turlupinare il prossimo suo con pavida, astuta e perfida maestria.

Di non avermi relegato in un qualunque “1° sotto” di una scala gerarchica scandita da una società senza gradini.

Di non avermi candidato per un’opera a brandelli, firmata da troppi autori, rattoppata da troppe amnesie, musicata da miserabili orchestre senza maestri né solisti.

Di avermi sottratto da un loggione ovattato, asettico, mendicante.

Di avermi cauterizzato da quelle comode virtù con le quali sarei naufragato, condannato a vegetare, in quegli schemi convenzionali, irreversibilmente piatti, che regolano ogni frustrazione e puzzano di quantità.

Gli direi, inoltre, di essere riuscito a far di me un tormentato e smarrito guerriero, incapace di violare logore orme e antichi giuramenti, adultero e ostaggio di questa società sponsorizzata dalla squallidocrazia, che ha bandito ogni civiltà, orfana di tradizioni, priva di specchi e senza onore.

 

Solo estremamente prodiga di vergogna, di tradimenti e di viltà.

A.N.P.d'I. sez. di Roma

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