Autorità civili e militari, gentili e graditissimi ospiti, carissimi paracadutisti.
Non è senza una profonda emozione che prendo la parola.
Emozione dettata, senz’altro, dalla sacralità del luogo ma ,anche e soprattutto, dalla coscienza della mia probabile inadeguatezza per questa circostanza. Inadeguatezza che avverto ,però, certa e assoluta al ricordo, condiviso con alcuni di voi, di avere avuto la fortuna di ascoltare, all’ombra di questi stessi severi cipressi, le parole di figure quali Edoardo Sala, Giuseppe Palumbo e Mario Chiabrera. Uomini entrati ,a diritto, tra le figure di riferimento nella fulgida storia del paracadutismo militare e ai quali rinnovo, oggi, i miei più profondi sentimenti di affetto, gratitudine e stima.
Confido nell’indulgenza dei presenti e spero che la considerazione che vorranno avere per il mio integro entusiasmo, impegno, e incrollabile fede nei valori del paracadutismo trasmessi da quei grandi comandanti e, per me, padri spirituali, possa valere a rendere meno tangibile la mia inadeguatezza.
La nostra presenza di fronte a questa stele si rinnova da anni. Purtroppo la grandissima maggioranza dei camerati del Rgt Folgore , ai quali si deve, dapprima, l’amorevole e pietosa ricerca sui campi di battaglia e, poi, l’onorevole sepoltura di questi caduti, non è più con noi. Progressivamente, come è nella logica del divenire della vita, quelle fila si sono assottigliate, ma ciò non ha mai messo in forse la rinnovata presenza dei nostri baschi e delle nostre insegne presso questa tomba.
Tomba fortemente voluta dai sopravvissuti a quei tragici eventi, quasi a soddisfare il desiderio di recuperare, come in un rituale magico, il contatto fisico troppo presto interrotto e di riappropriarsi di quei momenti di entusiasmo e di paura, superata sino al sacrificio estremo.
Questa tomba, però, seppure espressione di grande tensione morale, non avrebbe superato i confini e i limiti del ricordo di coloro che avevano avuto il privilegio di vivere quella esperienza e avevano stretto con i camerati caduti il giuramento di non dimenticare.
Quel ricordo si sarebbe, inevitabilmente, sbiadito e, poi, esaurito per il fluire del tempo e per l’inarrestabile venir meno di quegli attori.
Ma quella eredità spirituale non è andata perduta: noi l’abbiamo raccolta e difesa e ,con tenacia, intendiamo proseguire a riproporre, sino a quando Dio vorrà, alla considerazione delle nuove generazioni di paracadutisti e non solo, il significato morale e la grande valenza del sacrificio di quei ragazzi immolati sul fronte del litorale laziale.
Con il passare del tempo, la più serena valutazione di quegli eventi, progressivamente liberata dagli inevitabili condizionamenti emotivi di “quelli che c’erano”, ha trasformato il significato di questo incontro e di questo monumento.
Questa stele, pur continuando a essere lo spazio terreno ove hanno trovato degna sepoltura i nostri eroi ,giorno dopo giorno e anno dopo anno, ha trasceso la sua funzione tangibile per illuminarsi, alla stregua di faro, simbolo di quel riscatto morale che fu la motivazione prima del cosciente sacrificio di quelle giovani vite.
La nobiltà d’animo e dell’impegno di quei “ragazzi” emerge, con grande forza, dalle parole che, testamento morale, uno di essi ebbe a scrivere alla madre prima dell’ultimo assalto :
“…se dovessi cadere lasciate che il mio sacrificio, come quello di altri martiri, rappresenti semplicemente il pegno della nostra rinascita. La tragedia dell’Italia vorrà forse il mio sangue? Io l’offro con l’impeto della mia fede. Lasciate che esso sgorghi senza equivalente, senza rappresaglia, senza vendetta. Così soltanto sarà più caro e fecondo per la mia Patria: dono e non danno, atto d’amore e non fomito d’odio, necessità di dolore e non veicolo di disunione…”.
Il divenire di questa mistica trasformazione è stato poi ,lucidamente, delineato dal comandante Sala quando, ormai molti anni or sono, ebbe a dire proprio a fronte di questi sassi:
“un buon seme non può non dare buoni frutti anche se il seminatore non sempre fa in tempo a vederli”.
E noi, oggi, vogliamo essere ,qui, la testimonianza vivente che quel seme non fu sparso invano.
In un momento di smarrimento, di sciagura, quando sembrava che tutto fosse perso, che il disonore,la viltà e il tradimento dovessero prevalere sulle virtù di un popolo, la Patria chiamò al risveglio e alcuni privilegiati ne udirono il richiamo, ne raccolsero l’accorato appello:
uscire dal dolore e dall’abbattimento della sconfitta, ridare agli animi intorpiditi la fiducia di se stessi, nella coscienza del dovere compiuto oltre ogni calcolo, al prezzo della propria vita.
Un richiamo trascendente al riscatto che rende il sacrificio di questi giovani assimilabile a quello del Cristo figlio, fatto uomo dal Dio padre per essere crocifisso in espiazione e per la salvezza di una umanità che sembrava destinata a perdersi.
Anche questa volta i figli migliori risposero al patrio richiamo e, fuggendo dalle proprie famiglie, dalle proprie madri, dagli affetti terreni accorsero a vestire la “ giubba di battaglia” per offrire con il loro sacrificio una testimonianza indelebile di ciò che può scaturire dalle radici di una Nazione quando tutto è perduto, quando alla sconfitta in battaglia rischia di aggiungersi la disfatta morale.
La nostra presenza qui oggi, ribadisco, valga a testimoniare la considerazione e la gratitudine della nostra Gente a quegli eroi e a ricordare agli immemori che un pugno di Italiani, degni di tale nome, ha difeso, sino al martirio, quella Roma che, oltre ad essere Capitale, è simbolo di una storia millenaria di civiltà, faro universale della Chiesa di Cristo.
La sorte della battaglia fu avversa. Ancora una volta mancò la fortuna, non l’onore.
Roma è caduta, ma i corpi degli eroi rimasti sul campo sono e siano per sempre il simbolo del riscatto delle virtù italiche, la prova più certa che l’Onore d’Italia è stato difeso oltre il limite di ogni possibilità umana.
Viva l’Italia, viva i paracadutisti Italiani, Folgore!!
Adriano Tocchi