FUNE DI VINCOLO

SI PRECISA CHE QUANTO ESPOSTO NEGLI ARTICOLI NON RAPPRESENTA, E NON PUÒ RAPPRESENTARE, NÈ LE POSIZIONI DELLA SEZIONE DI ROMA NÈ TANTOMENO QUELLE DELL'ASSOCIAZIONE, MA COSTITUISCONO MERAMENTE OPINIONI RIFERIBILI AL SOLO AUTORE.

La bandiera dei tre colori

da Lotta politica Sabato 31 ottobre 1953

Un giorno i nostri ragazzi, che non conoscono la disfatta morale, canteranno ancora le strofette risorgimentali seguendo i reparti in marcia

Non cantano i ragazzi, sulla scia delle fanfare le strofette di tutte le nostre guerre: «E la bandiera dei tre colori l'è sempre stata la più bella…»

A dir la verità non seguono più neppure i reparti in marcia, sforzandosi di allungare il compasso delle gambe per tenere il passo. Aveva voglia, il caporale, in coda all'ultimo plotone dell’ultima Compagnia, di lanciare all’indietro occhiate minacciose, di far gran gesti con le mani — attento a non rompere la cadenza, a non sbilanciare il fucile. — Solo il Maresciallo che stava fuori dei ranghi e rallentava pian piano fino a portarsi all'altezza della coda, riusciva, con l'autorità del grado e del portamento fiero, sacrando sottovoce, a scomporre la marmaglia. Ma bastava che egli ritornasse in testa a scandire con voce baritonale l'«un due», eccoli di nuovo tutti lì dietro. E c'era il caso che qualcuno, più audace, gli rifacesse il verso: «nuppì ».
Non si cantano più le strofette del Risorgimento: Addio mia bella addio o quelle della grande guerra: Cimitero di noi soldà, o quelle dell'Impero: Sul laga Tana, o quelle dell'ultima generazione: Colonnello non voglio pane; dammi il sacco, si scivola, bada; quando pareva vinta Roma antica.
Bene, non importa.
Ricominceremo da capo.
Ricominceremo — s’intende —ad insegnare ai nostri ragazzi, a quelli che crescono ora, che non hanno fatto in tempo a ricevere l'umiliazione della disfatta morale, a quelli che non sono stati avvelenati dal tossico della propaganda rinunciataria ed autolesionista, ricominceremo ad insegnare che cosa sia la bandiera, quella dai tre colori, quella che è di tutte la più bella e che si accompagna, nelle strofette, all'idea di libertà.
E non diremo loro, con la formula del vecchio manuale per le reclute, che «la bandiera è il simbolo dell'unità della Patria»: non ci interessano le formule che sanno di fureria, e del resto non è vero che la bandiera sia il simbolo di qualche cosa. La bandiera è qualche cosa di vivo e di vero. E' il tangibile aspetto della Patria, forse, o piuttosto un materializzarsi di tante cose che urgono dentro l'animo dell’uomo nei momenti più felici, tante cose che non si sa mai esprimere a parole, che solo le meditazioni od i semplici, scarni atti sul campo di battaglia, possono significare.
Né daremo una lezione di storia patria ai nostri ragazzi, domani; non che il Tricolore fu suggerito dal Drapeau di Valmy a Giuseppe Compagnoni, o che venne ufficialmente adottato quale bandiera nazionale al Congresso Cispadano di Reggio Emilia il 7 gennaio del 1797, o che se lo portarono fin dentro le mura di Mosca i Veterani dell’Armata italiana al seguito di Bonaparte o che lo «diè all’aure primo»
in un moto di schietta intonazione risorgimentale colui che «a Sfacteria dorme», Santorre di Santa Rosa.
E non faremo neppure leggendari riferimenti – cari a tante generazioni di Italiani – al vaticinio dell’aurea latinità: ricordate Pallante il più puro il più italico degli eroi virgiliani composto nel feretro intessuto con ramoscelli di corniolo, verdi le foglie, bianchi i fiori, rosse le bacche?
No, no: niente leggenda, niente storia, niente manuale, e niente retorica, se vi aggrada. Bandiamo dunque dal nostro civilissimo viver moderno questa retorica stantia in omaggio ai dettami atlantici, la costumanza italiota del capo chino cosparso di cenere, agli articoli segreti dell’armistizio lungo. Questa retorica di Villafranca e di Calatafimi di Bezzecca e dell’Amba Alagi (Menelik Imperatore), di Ain-Zara e del Montello, di Ronchi e del Passo Uarieu (imperatore Selassié), di Guadalajara (sissignori), e di Bir-el-Gobi, di Cheren e di Isbuscenshi, Nettuno e della Garfagnana,
E, siatene certi, non ricorderemo neppure ai nostri ragazzi, addì 4 novembre, annuale di Vittorio Veneto, certi nomi di personaggi che pur ebbero una certa importanza.
Ma, perdio!, ci lascerete raccontar loro una storia, a titolo di esemplificazione, una storia amara ambientata nel periodo della disfatta, nella zona delle pinete pisane care alle prostitute ed ai negri dell'Army, nel clima, insomma, che tanto piace ai badogli, ai calossi, agli aristarchi.
S'era verso il settembre del '45 ed i 40.000 di Coltano vedevano con terrore avvicinarsi l'epoca delle pioggia che avrebbero ridotto l'area del 337 Criminal Fascist's Camp in un pantano. Terra di bonifica, era, argilla compatta e polvere. Il sole l'aveva cotta e il vento la faceva turbinare tra i pini marini in refoli che si portavano via le tende e gli stracci appesi ai reticolati. Ora la pioggia avrebbe inghiottito tutto, compresi i corpi dei 40.000 cotti dal sole, smangiati dalla fame, tenuti in piedi dalla febbre che ardeva loro dentro. Sopra il più alto pennone, al di là delle garitte delle sentinelle, sventolava la bandiera stellata, l'emblema dei conquistatori, dei carcerieri.
I 40 mila non sapevano niente del loro domani, vivevano del presente che si stava facendo ogni giorno più problematico. Vivevano di un cucchiaio di pappina, di un tozzo di pane, di una sorsata di acqua al cloro, di una boccata di nicotina. Stavano in piedi per quella febbre che ardeva dentro di loro, che i carcerieri cercavano di spegnere con ogni possibile mortificazione senza mai riuscirci.
Un giorno — di settembre, abbiam detto — vi fu un'insolita animazione non contemplata negli orari che regolavano la vita del campo in ogni settore. Laggiù dal pennone stava scendendo lentamente la bandiera del «nemico». Scomparve alla nostra vista sotto la linea dei reticolati, dei capannoni, del Comando, e seguì un lunghissimo periodo di silenzio. Tutti attendevano «quella cosa», senza osare di guardarsi negli occhi, trattenendo il fiato.
Qualcuno pensò certo, udendo più forti e veloci i battiti del proprio cuore, di non farcela fino in fondo, di cadere a terra prima di poter vedere cosa sarebbe successo.
Ed ecco infine, con una lentezza esasperante, salire un'altra bandiera, la nostra, salire a strappi, manovrata incautamente, ristare afflosciata, spiegarsi da un alitare leggero, garrire infine maestosa.
No, non vi furono applausi. Apparentemente non era successo niente. Ognuno ritornò al proprio posto, alle proprie occupazioni o, meglio, al proprio ozio. Non vi furono neppure commenti: infine eravamo prigionieri della propria bandiera.
Pensateci, ragazzi, a cosa voglia dire questa frase, oggi, 4 novembre. A quali amare considerazioni fosse indotto ognuno di quei soldati che continuavano a rimanere criminali anche nella considerazione dei concittadini per i quali s'erano battuti fino in fondo. Che continuavano a rimanere prigionieri, fra una quadruplice fila di reticolati, tagliati fuori dal viver civile, sempre più affamati, sempre più disperati.
Eppure, senza osare confessarlo neppure a se stesso, ognuno fu lieto dell'avvenimento, ognuno rivolgeva lo sguardo furtivamente, ogni ora della giornata, a quello straccio di tela verde, bianca, rossa, alto sopra la chiostra dei pini, di là dai reticolati.
E qualche volta ci capitò di sentir intonare a mezza voce, la sera, sotto qualche tenda, la strofa vecchia: « E la bandiera dei tre colori... » -
Ecco quello che volevamo dire, oggi quattro novembre, ai nostri ragazzi, sulla bandiera, della Patria. Forse capiranno.

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